
Diario di Bordo 13.02.2018 - dopo piccola pausa tecnica-
Aggiunta la parola del giorno Meravigliosi contributi tra i commenti nella sezione "POESIE"
Ancora un commento su "STORIA D'ITALIA" di Benedetto Bartolomeo Contributi d'autore anche nella sezione "TESTI MUSICALI" e "BRANI"
IL SITO HA UNA NOVITA' - Sono state create le pagine personali e già fioccano i contenuti - visitatele -
--- Le pagine di Lucia Cocco e di Franca Cristina Di Maio sono già costantemente aggiornate -- Aspettiamo altri contributi
Restate online - Nuove pagine in arrivo
Di Benedetto Bartolomeo
Per riprendere le nostre parole...un saluto
​
Salutare
[sa-lu-tà-re (io sa-lù-to)]
SIGN Rivolgere a una persona formule o gesti di amicizia, di rispetto, nel momento in cui la si incontra o la si lascia; accogliere; abbandonare; fare visita; acclamare
dal latino [salutare] 'augurare salute', ma anche 'acclamare, visitare, adorare', derivato di [sàlus] 'salute'.
L'augurio convenevole che riguarda la salute non ci stupisce: dal 'salve' allo 'stammi bene' ne usiamo comunemente una batteria notevole. Ed è così da tempo immemore. Non stupisce quindi che l'intero genere di formule e gesti con cui accompagnamo l'incontro e la separazioneporti il nome del salutare.
Ciò che invece è stupendo è l'articolata ricchezza di significati di questo verbo al di là della formula e del gesto di saluto, polarizzati giusto nei momenti del ritrovo e del commiato. Saluto la primavera con gioia e buoni propositi, saluto l'arrivo degli ospiti, la città saluta i soccorritori: così è un accogliere, fino all'acclamazione. Saluto lacompagnia quando mi appresto a un lungo viaggio, saluto la prospettiva ormai sfumata: così è un dare l'arrivederci o l' addio.
Il nocciolo invariabile del significato di 'salutare' sta nel suo essere un atto di rispetto, di riconoscimento: nel salutare vediamo e diamo valore a chi o ciò che salutiamo. In questo senso emerge con forza il 'salutare' nel senso di 'visitare': se passo a salutare (momento breve, in cui giungo e riparto subito), il mio è un atto di cortesia semplice e intensa, se non di omaggio. Anche se, in effetti, questo verbo ha il profilo di un' enantiosemia in cui alternamente coesistono l'arrivo e l'abbandono: il giocatore saluta la nuova stagione calcistica sia quando firma il contratto nella fremente aspettativa generale sia quando gli saltano i legamenti.
______________________________
(Dante, Ne li occhi porta la mia donna Amore, nella Vita nova)
Ne li occhi porta la mia donna Amore,
per che si fa gentil ciò ch’ella mira;
ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core,
sì che, bassando il viso, tutto smore,
e d’ogni suo difetto allor sospira:
fugge dinanzi a lei superbia ed ira […]
Quel ch’ella par quando un poco sorride,
non si pò dicer né tenere a mente,
sì è novo miracolo e gentile.
La Vita Nova, opera giovanile, è in sostanza l’antefatto della Commedia, poiché narra la nascita dell’amore per Beatrice.
Dante la incontra la prima volta a nove anni, e subito ne è innamorato perso. Per anni, però, la ammira a distanza, sempre impacciatissimo. È anche un po’ ridicolo, povero Dante, tanto che le amiche di Beatrice si prendono volentieri gioco di lui.
Alla fine capisce che il suo amore non potrà mai essere ricambiato; ma in fondo poco importa. Esso rimane un’esperienza essenziale e trasformante: diventa il perno di una “Vita nuova”, improntata a una lode grata, stupita, e totalmente gratuita. Questo sonetto ne è un esempio.
Beatrice diventa così l’emblema di una bellezza salvatrice, umana e divina al tempo stesso. La sua anima è tanto pura e autentica che anche un semplice saluto sulle sue labbra non è più una convenzione. È veramente un augurio di salute: ossia una partecipazione alla sorte dell’altro, nutrita di rispetto e tenerezza. Diventa, persino, unostrumento di salvezza: rende i cuori più “gentili”, e li fa vergognare dei propri difetti. Perciò ogni uomo prima si volta a guardare Beatrice e poi, ricevuto il suo saluto, abbassa gli occhi impallidendo (“smore”), con insolita timidezza.
Certo, è una descrizione idealizzata, piena di topoi letterari. Ma è anche nutrita dalla diretta esperienza di un innamorato timido, per il quale il saluto – unico filo che lo legasse all’amata – ha assunto, nella sua banalità, un peso specifico enorme.
Peraltro anche per noi sarebbe interessante recuperare il senso forte del “buongiorno” che diciamo usualmente; e portare così, ovunque andiamo, l’amore “negli occhi”.
Non parliamo poi di quando al saluto si aggiunge un sorriso. Lì lo sguardo innamorato – e perciò più acuto – di Dante coglie una bellezzatale che non sembra appartenere a questo mondo. Un “miracolo” impossibile da spiegare a parole, ma che il cuore riconosce subito.
Una parola coinvolgente ...
​
​
[co-in-vòl-ge-re (io co-in-vòl-go)]
SIGN Trascinare qualcuno in una situazione; associare, rendere partecipe; interessare
composto di [co-] e [involgere], che è dal latino [involvere] 'trascinare, travolgere, avvolgere', a sua volta da [in-] e [vòlvere] 'volgere'.
La ricchezza e il vigore di una parola si coglie anche dalla sua varietà d'uso.
Si tratta di una parola sorprendentemente recente, che risale solo alla fine dell'Ottocento, e ha un'incisività mirabile, da osservare bene. Infatti al tradizionale 'involgere', verbo oggi desueto coi significati di 'avvolgere, avviluppare', aggiunge un semplice prefisso: quel co- dà la dimensione della partecipazione a una situazione - una partecipazione che per la verità nel coinvolgere non è attiva, autodeterminata. Si vienecoinvolti. Otteniamo così l'immagine intensa di un trascinare in un viluppo, quasi fosse la zuffa dei cartoni animati che procede rotolando in forma sferica e raccogliendo nuovi corrissanti - nel bene e nel male.
Lo zio malaccorto si trova coinvolto in traffici loschi, al processo una testimonianza pirotecnica coinvolge nomi illustri, cerchiamo di coinvolgere nel progetto un paio di amici brillanti, coinvolgiamo le amiche nella scelta del regalo per la moglie, continuiamo a origliare laconversazione del tavolo accanto perché ormai la faccenda ci ha coinvolto, e lo spettacolo è davvero coinvolgente.
Trascinare, associare, interessare: splendida invenzione, questa parola, che ci apparecchia tanti significati a partire dal nocciolo di un innocuo avvolgere.
Cominciamo il mese con una parola ...stupenda
​
[stu-pèn-do]
SIGN Che desta stupore, meraviglioso
dal latino [stupendus], gerundivo di [stupère] 'stupire'.
Ricordo di un professore padovano, che diceva "Nella cappella degli Scrovegni, col naso all'insù e con la bocca aperta, non si capisce se sei stupido o stupito". Questo è l'effetto dello stupendo.
Pianamente è ciò che desta stupore, per le sue qualità straordinarie - specie per una bellezza straordinaria; e questo 'che desta stupore' va visto perbene. C'è qualcosa che rapisce, nello stupendo, che azzittisce la mente, che rende stupiti e stupidi, che sbalordisce (rende balordo, ritarda): lo stupendo ha un alto valore estetico a posteriori, quando ci ripensiamo e lo qualifichiamo come tale, mentre nel momento in cui è percepito, solo, dilata il tempo, in una dimensione nuova. Una qualità che determina uno stato d'animo in cui perfino il pensiero fa silenzio.
Sei stupenda quando cammini verso di me a fianco di tuo padre o quando esci dalla doccia; è stupendo il discorso che udiamo da una persona saggia e ispirata; è stupenda la forza di una volta di pietra. Poi spesso viviamo lo stupendo come iperbole, anche ironica: "Hai ricevuto il mio regalo?" "Sì, è stupendo, grazie"; "Questo è il lavoro finito" "Stupendo, lo guardo subito"; "Avrei invitato altre otto persone a cena" "Stupendo!". Ma anche quando suona come una bonaria esagerazione - e comunemente così suona - non ci deve passare di mente la sua prima vocazione: un significato così potente da spazzare via la possibilità mentale di ogni altra qualificazione.
Ecco l'ultima parola del mese
​
[sa-ra-ci-né-sca]
SIGN Cancellata scorrevole di legno o metallo; paratia; serramento scorrevole per porte e finestre
femminile sostantivato dell’aggettivo [saracinesco], cioè 'dei Saraceni', da [saracino]. Variante di [saraceno], sono dal greco [sarakenós], nome di un popolo arabo (a sua volta dall'arabo [sarqi] 'orientale').
La saracinesca è un elemento presente in maniera capillare nel tessuto delle nostre città: una paratia difensiva, perlopiù metallica, formata da elementi avvolgibili che scorrono lungo due guide, con cui si chiudono e proteggono gli accessi a locali e fondi. Nel suo essere alzata o abbassata si fa immagine portatrice di significati sul momento di attività e su quello di interruzione del lavoro: le saracinesche alzate fino a tarda notte ci parlando di un adoperarsi febbrile, e vedere di nuovo aperte saracinesche che erano perennemente chiuse ci racconta una rinascita economica; le saracinesche abbassate ci parlano di riposo feriale, di raccogliemento dolente, di abbandono. Ed è bello che tutti questi vividi significati della vita comune siano veicolati dal moto di un serramento.
Pare chiaro che questa tecnologia sia derivata da ben altra tecnologia difensiva (più rude e massiccia), posta a presidio, fin da tempi antichi, dell'apertura o della chiusura del passaggio di una porta d'una fortificazione o di una cinta urbana. Veri cancelli che venivano calati e sollevati con funi e argani. Senza poi parlare delle saracinesche-paratie che bloccano o permettono flussi d'acqua. Ma resta una seria domanda: com'è che c'entrano davvero i famosi saraceni con le saracinesche?
Ebbene, sarebbe arduo sostenere che l'uso della saracinesca in Italia sia stato mutuato dai Saraceni. È più probabile che tale provenienza sia stata una suggestione, impressa nella lingua. Qualcuno ha anche sostenuto che il nesso fosse da ricercare nel suo essere strumento contro le scorrerie dei Saraceni. Ma anche questa affermazione è difficile da dimostrare.
La parola del giorno del 30 Gennaio è
​
[li-ta-nì-a]
SIGN Nella liturgia cattolica, preghiera formata da brevi invocazioni pronunciate dal ministro di culto a cui i fedeli rispondono con una formula; serie lunga e noiosa; lamentela insistente
voce dotta, dal latino [litania], che è dal greco [litanéia] 'preghiera'.
S'incontrano molte parole di uso comune che scaturiscono dal lessico ecclesiastico, e fa sorridere la puntualità con cui la lingua le volge in ironia, con bonaria dissacrazione.
La litania propriamente è un tipo di preghiera, dal ritmo cadenzato, articolata in brevi invocazioni rivolte dal sacerdote a Dio, alla Madonna o ai santi alle quali i fedeli rispondono con formule fissate dalla liturgia (classicamente ora pro nobis, miserere Domine e via dicendo). Per quanto la ripetitività inesausta sia fonte di alta suggestione - che esperienza numinosa è entrare in una chiesa scura durante una litania! - è anche fonte di disarmante noia. Tant'è che è giusto il carattere barboso dell'invocazione a informare gli usi estesi di questa parola.
La litania diventa così la sequela interminabile, pronunciata o scritta, più noiosa e importuna che ricca: una litania di citazioni non vale a rafforzare l'argomentazione scadente, chiudiamo il giornale davanti alla litania di insulsi fatti di cronaca, ci stupisce e diverte la litania di titoli nobiliari anteposti alla firma. Inoltre, si rivela brevissimo il passo ideale che separa la litania liturgica dalla lagna insistente: basta dire che ci fa male il ginocchio per far partire la gara di litanie sui problemi di salute, il debitore prende tempo con la solita litania, e l'impiegato all' assistenza clienti si deve corazzare contro le più fantasiose litanie.
Una parola che ha tutta la massa della tradizione, colorata però di un tono schietto e smaliziato.
Fate click a profusione sul nostro banner .....La parola del giorno è
​
[pro-fu-sió-ne]
SIGN Spargimento abbondante, distribuzione prodiga; abbondanza, sperpero
voce dotta recuperata dal latino [profusio], derivato di [profùndere] 'profondere' composto di [pro-] 'avanti' e [fùndere] 'versare'.
Questa parola è graziosamente ricercata, e scaturisce da un'immagine molto precisa e intensa, che è utile e bello tenere a mente.
La profusione è innanzitutto l'atto del profondere, che propriamente sarebbe un versare avanti, e quindi uno spargere copiosamente. È in questa veste che la profusione ci si presenta, e quindi potremmo parlare della profusione d'acqua che scroscia dal tubo schiantato per il gelo, della profusione di cioccolato fuso che rende ghiotto anche il dolce meno riuscito, o di una profusione di vino così entusiasta da infradiciare la tavola. Già in questi esempi emerge con chiarezza quanto sia breve il passo che separa lo spargere abbondante della profusione dalla prodigalità, e dall'abbondanza stessa. L'acqua sprecata è molta, il cioccolato viene aggiunto senza misura, il vino è versato con una larghezza noncurante.
La prodigalità generosa oltre lo spreco e l'abbondanza ricchissima diventano giusto i fulcri degli usi quotidiani, figurati, di questa parola. Si legge di come la profusione di denaro pubblico non sia valsa a salvare l'azienda in profonda crisi, raccontiamo di come abbiamo conquistato una personale vittoria con una profusione d'impegno staordinaria, o del matrimonio con fiori, cibi fini e libagioni a profusione.
Parola corposa fin dal suono, che accende di colore il discorso con un'immagine eloquente.
La parola del giorno di oggi (26 Gennaio) è
​
[ras-se-gnà-re (io ras-sé-gno)]
SIGN Come transitivo rimettere, rinunciare, consegnare; come intransitivo pronominale rimettersi alla volontà altrui o al fato
forse dal latino [resignare] 'rompere un sigillo, rivelare'; forse da [assegnare], con un prefisso intensivo.
Questa parola è fra le più complesse. Infatti ricostruirne il percorso semantico ci mette davanti a una certa frammentazione di significati, a delle soluzioni di continuità che mettono in discussione l'unità dell'etimo. Ma la sua raffinatezza e la sua diffusione meritano lo sforzo.
Partendo da ciò che possiamo osservare nel nostro quotidiano, troviamo nella locuzione 'rassegnare le dimissioni' il campione più noto del rassegnare transitivo. Si tratta di un esito del primo significato che 'rassegnare' ha in italiano, cioè 'rimettere, consegnare, rinunciare'. Ad esempio, se rassegno il mandato che mi è stato dato significa che figuratamente lo sto riconsegnando. E quindi se rassegno le mie dimissioni, le presento, le consegno nelle mani ci chi le può accettare.
Il rassegnare intransitivo pronominale (rassegnarsi) prende le mosse da questo consegnare: quando mi rassegno mi rimetto alla volontà altrui, o al fluire incontrollabile degli eventi. Ai tre quarti della partita la squadra in svantaggio è già rassegnata, davanti a un rompicapo non riesco a rassegnarmi, e l'amministratore si rassegna alla delibera del consiglio.
Il come si arrivi a questi significati è piuttosto sottile, se non oscuro. Il latino resignare nasce infatti nell'immagine del rompere un sigillo, e perciò di un rivelare, di uno sciogliere, di un liberare - e non è perspicuo come si arrivi al rimettere, al consegnare. Forse attraverso un invalidare?
Lo diventa ancora meno quando consideriamo significati antichi del 'rassegnare', ormai desueti, che lo avvicinavano al registrare: si potevano rassegnare le truppe disponibili, si potevano rassegnare i crediti su un libro - da cui il sostantivo 'rassegna', vivissimo in 'passare in rassegna', 'rassegna-stampa' e via dicendo. È plausibile che a questi significati si arrivi dal termine 'assegnare' munito di un prefisso intensivo - ma ciò che è certo è che l'etimo è incerto.
Dopotutto, quando si ha a che fare con un ente di base, versatile e proteiforme quale è il signare, impiegato in ogni ambito linguistico per secoli, non c'è da stupirsi se il risultato non è monolitico, se l'uso sfugge a un'evoluzione lineare.
(Nota ortografica, 'io rassegno' ma 'noi rassegniamo', con la i.)
La parola del giorno di oggi (25 Gennaio) è
​
[ri-cet-tà-co-lo]
SIGN Luogo atto a ricevere qualcosa; rifugio
dal latino [receptàculum], derivato di [receptare] intensivo di [recìpere] 'accogliere', composto di [re-] 'indietro' e [càpere] 'prendere'.
Capita sovente che alcune parole neutre, nella loro evoluzione, acquistino dei significati spiccatamente negativi.
Il ricettacolo, di per sé, non significherebbe niente di male: è semplicemente un luogo in cui qualcosa si raccoglie. Ad esempio si può parlare del pozzo ricettacolo delle acque piovane, o dei ricettacoli delle reti da pesca. Un luogo del genere è idealmente molto affine ad un ricovero, a un rifugio - tant'è che già in latino il receptaculum prendeva questi significati: gli scalatori stanchi si dirigono in fretta verso il più vicino ricettacolo, la via di pellegrinaggio fiorisce di ricettacoli.
Ma nell'uso consueto il ricettacolo prende un tono chiaramente negativo: la cantina deve essere tenuta pulita, se non si vuole che diventi un ricettacolo per topi, il bar di periferia è un ricettacolo di una fauna poco raccomandabile, l'esterno del grande museo diventa un ricettacolo di venditori ambulanti e truffatori che ronzano intorno ai turisti. Tale consuetudine però non ci deve costringere a usarlo con questo colore: è un termine ricco, e va sfruttato in ogni sua possibilità. Peraltro è fratello del meno comune 'ricetto', più ricercato, e che non si è scavato un simile alveo di negatività.
È da notare infine che la suggestione di questo termine ha trovato spazio anche nelle scienze, specie in botanica e zoologia: il ricettacolo è la parte del fiore che ne contiene gli organi, ed è il nome di certe cavità anatomiche atte a contenere fluidi.
(Ci domandano se abbia qualcosa a che vedere con la 'ricetta': la risposta è sì, ma questa parola merita una trattazione a parte.)
Parola del giorno 24 Gennaio
[e-go-tì-sta]
SIGN Che ha una considerazione esagerata di sé
da [egotismo], che è dall'inglese [egotism], termine coniato nel 1714 dal giornalista Joseph Addison sulla rivista "The Spectator", a partire dal latino [ego] 'io'.
Per quanto l'ego, cioè l'io, ne resti la base comune, l'egoista e l'egotista sono distinti da caratteri molto diversi.
L'egoismo non emerge in un'alta considerazione di sé, ma nella ricerca del proprio vantaggio, nel pensare per sé: come scriveva Wilde, nell'esigere che gli altri vivano come pare a noi. L'egotismo invece consiste nell'altissima considerazione di sé, in una smaccata presunzione, in una superiore valutazione di sé rispetto agli altri. Bollare qualcuno come egotista non lo dipinge come un utilitarista che si avvantaggia a scapito altrui. Può essere egotista il professore che trova nella propria opinione il massimo e unico valore accademico, il calciatore di successo durante l'intervista può sfoggiare un egotismo senza eguali (tanto che pare le partite le vinca da solo), l'adolescente egotista considera il proprio pensiero come l'unico degno di credito.
Questa parola (o meglio, il suo omologo inglese) fu coniata all'inizio del Settecento dal giornalista Joseph Addison sulla rivista "The Spectator", per descrivere quegli autori che solevano scrivere con particolare larghezza "Io... Io... Io...". Il fertile contatto con le riviste letterarie italiane veicolò l'importazione di questo termine, che ha avuto un considerevole successo, anche in ambito psicologico.
Vale la pena ponderare anche la differenza fra egotista ed egocentrico: mentre il primo ha una considerazione suprema di sé, il secondo ha un'infima considerazione dell'altro da sé - o proprio non ce l'ha, essendo lui stesso il suo unico centro. Egotismo ed egocentrismo sono quindi qualità speculari, che è importante distinguere - per quanto spesso coesistano.
Ecco la parola del giorno del 23 Gennaio
​
[relàcs]
SIGN Stato di riposo fisico e psichico
dal verbo inglese [(to) relax], dal latino [relaxare] ‘allentare, distendere’.
Senz’altro ciò che molti di noi si staranno godendo in un giorno di festa. Che sia meritato o no, il relax è diventato uno dei premi più agognati per staccare dai ritmi di vita quotidiani spesso frenetici e decisamente stancanti che ci vengono imposti. L’anglicismo si affianca a dei nostri corrispettivi quali “riposo”, “distensione”, “svago”, raccogliendo probabilmente in un unico termine un po’ tutte le sfumature presenti in tali parole italiane, e giocando come carta vincente per la sua diffusione, oltre alla sua brevità, anche il suono esotico.
Ma la storia di relax è più particolare di quanto non appaia: si tratta infatti, in qualche modo, di uno pseudo-anglicismo, in quanto nella lingua d’origine (to) relax è un verbo, che noi abbiamo invece trasformato in un sostantivo. Per indicare l’azione corrispondente, abbiamo poi sfruttato il già presente “rilassare” (precisamente nella forma riflessiva rilassarsi), divenuto così un calco semantico proprio dell’intransitivo inglese to relax.
Relaxation è il sostantivo presente nel dizionario inglese, poco sfruttato in patria e ancora meno conosciuto al di fuori dei confini anglofoni. Ma il nostro 'rilassamento', che indica, come derivato di rilassare, distensione ed allentamento con prevalente riferimento a qualcosa di prettamente fisico (come ad esempio i muscoli), ha anche delle accezioni piuttosto negative, che riconducono allo scadimento, al deterioramento dei valori; per questo probabilmente si è preferito aggiungere l’alternativa 'relax', che ha acquisito senza dubbio un senso nettamente positivo. Una parola breve e comoda introdotta alla fine degli anni Cinquanta e impostasi attraverso la pubblicità, che abbiamo in qualche modo personalizzato e a cui in pochi si sentono di rinunciare.
La parola del giorno 22 Gennaio è
​
[fì-glio]
SIGN Nato, rispetto a chi o ciò che l'ha generato; appellativo rivolto a un giovane da una persona adulta
dal latino [filius].
Come molte parole che non hanno bisogno di presentazioni, anche 'figlio' cela dei tratti poco perspicui che meritano di essere portati al sole.
Ebbene, si tratta di una parola tutt'altro che isolata - e non solo perché ha un numero ragguardevole di derivati: nell'ordito riposto della lingua, quello del figlio è un nodo legato etimologicamente al fecondo e alla femmina. Il significato che quindi possiamo trarre da questa parola (il nato in genere, rispetto alla persona, all'ente, al gruppo, al luogo, al tempo che lo ha generato) è tanto versatile quanto pesante, niente affatto agile: si porta dietro connessioni intense e massicce con le prime emanazioni concettuali che riguardano la fertilità umana e animale.
Alla fine è un termine usato con la più quotidiana disinvoltura - da quando si parla di che combinano i propri figli, dei figli che sono sempre meno, a quando i figli della città si stringono a una tradizione, a quando qualcuno vaticina come sono e saranno i figli del nuovo decennio, senza contare quando è usato come appellativo da un adulto verso un giovane. E a maggior ragione è bello conoscerne la densità.
______________________________
Open Sans è un carattere simpatico, con lettere aperte, che ha un bell'aspetto sia su computer che su dispositivi mobili.
La parola del giorno 19 Gennaio è
Reprimenda
[re-pri-mèn-da]
SIGN Severo rimprovero
attraverso il francese [réprimande], dal latino [reprimenda (culpa)] '(colpa) da reprimere'.
Il reprimere non è un'azione dapppoco. Letteralmente sarebbe un 'premere indietro', ricacciando, soffocando - con un'intensità fisica notevole.
Ora, la locuzione latina da cui nasce la parola che osserviamo è 'reprimenda culpa', cioè 'colpa da reprimere'. Ci troviamo quindi davanti a un comportamento non solo errato, ma frutto di colpa, che deve essere ripreso con fermezza: e nel passaggio attraverso il francese, la reprimenda diventa direttamente la severa riprensione, la rampogna, il duro rimprovero espresso a correzione di tale comportamento. L'ottica è spesso gerarchica, ma non solo.
Il dirigente scrive una secca reprimenda al dipendente che ha avuto una condotta incresciosa, il contegno deplorevole del pubblico ufficiale viene censurato dalla testata giornalistica con una reprimenda circostanziata, l'organizzazione internazionale scrive una reprimenda all'amministrazione locale per la cattiva gestione del patrimonio artistico, il marito che abusa di sale merita la solita reprimenda.
Come tante parole elevate, si trova ad essere o seria e aulica, o bonaria e ironica. Il che la rende una risorsa molto versatile, adatta anche ai contesti più quotidiani. Dopotutto, il chiaro nesso col reprimere rende evidente il significato di questa parola anche per chi è poco pratico di latino.
* * *
​
La parola del giorno del 18.01 è
​
pen-ti-mén-to]
SIGN Dolore, rimorso, rammarico per avere o non avere fatto qualcosa; cambio d'opinione, correzione
da [pentirsi], derivato del latino [paenitère] 'dispiacersi, essere scontento', forse da avvicinare a [paene] 'quasi'.
È una parola semplice. Il punto di partenza è un codice di condotta, un insieme di precetti morali, legali, religiosi: il pentimento è un tipo di dolore e rimorso che scaturisce dall'essersene discostati, facendo o non facendo qualcosa. Ma tale sentimento è piuttosto complesso: comprende il desiderio impossibile di essersi comportati in maniera differente, il riconoscimento dell'errore e un ravvedimento, e il desiderio possibile di una riparazione. Mostro il mio pentimento per non esserti stato vicino, il pentimento di non aver fatto qualcosa finché ero in tempo mi rode, il mio pentimento è motivo di azioni nuove e forti.
Lo scorcio etimologico è davvero interessante: non ha a che fare con la pena, il castigo, ma piuttosto col malessere, la scontentezza, il dispiacere. Il richiamo plausibile e quasi ermetico al paene latino, 'quasi', proietta una forte luce di mancanza. Il quadro che ne risulta è tutto interiore.
parola semplice ma pesante; e come spesso accade, le parole pesanti possono essere modulate in significati più leggeri. In questo caso accade con il volgere del pentimento in un cambio di opinione, di idea, e in una piana correzione: scelgo il colore dell'auto senza pentimenti, l'appoggio che dò al mio rivale ha tutto il sapore di un pentimento ed è normale qualche pentimento nella stesura del romanzo.
_____________________________________
(Manzoni, I promessi sposi)
Ma appena rimase solo, [l’Innominato] si trovò, non dirò pentito, ma indispettito d’aver dato [la sua parola a don Rodrigo]. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria… (Cap. XX)
La rimembranza di tali imprese […] destava […] una non so qual rabbia di pentimento. (Cap. XXI)
Manzoni sta mettendo a nudo il “guazzabuglio del cuore umano”: un magma di pensieri ed emozioni, non sempre consapevoli. E qui sta il problema: le parole sono forbici, che ritagliando la realtà la semplificano. Più sono precise, più rischiano di lasciarsi sfuggire qualcosa; più sono di uso comune, e più rischiano di essere fraintese.
Cosa fa l’autore, quindi? Usa una struttura oppositiva (“non… ma…”) che si avvicina al concetto quasi in cerchi concentrici. Corregge, con piccoli tocchi, la direzione delle forbici. E a noi lettori chiede pazienza: non bisogna aver fretta di possedere la realtà, bensì occorre accompagnarla nelle sue tortuosità.
Non solo: la cautela del narratore riflette l’inconsapevolezza dell’Innominato. Noi infatti sappiamo che il suo animo si sta muovendo verso la conversione, ma il personaggio lo intuisce soltanto. Perciò l’ambiguità sintattica rivela l’altalenare del suo pensiero, che vorrebbe negare il cambiamento eppure, nominandolo, lo fa reale (come direbbe Freud, per l’inconscio la negazione non esiste).
C’è poi un terzo aspetto: le parole vivono nel tempo, ed il loro significato varia a seconda della consapevolezza con cui sono pronunciate. Manzoni quindi sfoglia i vari livelli della parola “pentimento”, facendole acquistare peso poco alla volta.
Il termine è introdotto quasi sbadatamente, con una connotazione debole: è solo un disagio indefinito. Perciò l’autore allude appena a categorie etiche, e subito le sostituisce con equivalenti neutri (dispetto, uggia, memoria).
In seguito quel sentimento confuso diventa un giudizio morale: l’Innominato prende coscienza della propria malvagità, anche se non vede ancora una possibilità di riscatto. Da qui la lotta che combatte con se stesso, espressa da un bellissimo ossimoro (“rabbia di pentimento”).
Solo dopo l’assenso della volontà l’Innominato potrà dirsi “pentito” in senso religioso: tanto che il colloquio con il cardinal Federigo ha tutto il sapore di una confessione.
Come il personaggio che descrive, quindi, anche la parola è in cammino, alla ricerca del suo significato proprio: ci dice quello che c’è, e ci fa presentire quello che non c’è ancora.
La parola del giorno di oggi 17.01
​
Felicità
La felicità è lo stato d'animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri.
L'etimologia fa derivare felicità da: felicitas, deriv. felix-icis, "felice", la cui radice "fe-" significa abbondanza, ricchezza, prosperità.
La nozione di felicità intesa come condizione (più o meno stabile) di soddisfazione totale, occupa un posto di rilievo nelle dottrine morali dell'antichità classica, tanto è vero che si usa indicarle come dottrine etiche (dal greco eudaimonìa) solitamente tradotto come "felicità". Il termine non solo indica gioia ma l'accettazione del diverso e la tranquillità con gli altri.
Tale concezione varia, naturalmente, col variare della visione-concezione del mondo e della vita su di esso.
Caratteristiche principali
Le sue caratteristiche sono variabili secondo l'entità che la prova (per esempio:serenità,appagamento, eccitazione, ottimismo, distanza da qualsiasi bisogno, ecc.). Quando è presente associa la percezione di essere eterna al timore che essa finisca.
L'uomo fin dalla sua comparsa ricerca questo stato di benessere. La felicità è quell'insieme di emozioni e sensazioni del corpo e dell'intelletto che procurano benessere e gioia in un momento più o meno lungo della nostra vita.
Se l'uomo è felice, subentrano anche la soddisfazione e l'appagamento.
Generalità sulla felicità
La emoticon sorridente è un noto modo per esprimere uno stato di felicità.
L'uomo ha delle necessità primarie, secondarie e sovrastrutturate, di solito l'appagamento di queste necessità e il raggiungimento dell'obiettivo dettato da un bisogno, procura gioia da cui deriva anche la felicità.
La felicità, studiata sotto il profilo dei bisogni (primari, secondari, ecc...), porta a valutazioni e definizioni non solo psicologiche e filosofiche diverse, ma anche materiali, e per questo motivo la felicità è stato ed è studio di ogni scienza umanistica. Rimane chiaro che la divisione è fatta per chiarire le varie componenti dello stato della felicità della persona, ma, essendo l'uomo una unità indissolubile di psiche-corpo-spirito-mente e così via, è chiaro che si parla sempre di tutte le componenti che si influenzano tra di loro. Se mi fa male un piede è molto più facile che io sia triste piuttosto che allegro e felice.
Epicuro , in una lettera sulla felicità a Meneceo a, lo ravvisava sul fatto che non c'è età per conoscere la felicità: non si è mai né vecchi né giovani per occuparsi del benessere dell'anima (e cioè di "filosofare", amare il pensiero). Per Epicuro la filosofia e la conoscenza delle cose fanno lo stato di felicità. Nella sua vita naturale l'uomo allontana da sé il dolore sia fisico (aponia) che psichico (atarassia) e l'assenza di queste due cause porta al raggiungimento della felicità.
La parola del giorno oggi è
Stupendo
[stu-pèn-do]
SIGN Che desta stupore, meraviglioso
dal latino [stupendus], gerundivo di [stupère] 'stupire'.
Ricordo di un professore padovano, che diceva "Nella cappella degli Scrovegni, col naso all'insù e con la bocca aperta, non si capisce se sei stupido o stupito". Questo è l'effetto dello stupendo.
Pianamente è ciò che desta stupore, per le sue qualità straordinarie - specie per una bellezza straordinaria; e questo 'che desta stupore' va visto perbene. C'è qualcosa che rapisce, nello stupendo, che azzittisce la mente, che rende stupiti e stupidi, che sbalordisce (rende balordo, ritarda): lo stupendo ha un alto valore estetico a posteriori, quando ci ripensiamo e lo qualifichiamo come tale, mentre nel momento in cui è percepito, solo, dilata il tempo, in una dimensione nuova. Una qualità che determina uno stato d'animo in cui perfino il pensiero fa silenzio.
Sei stupenda quando cammini verso di me a fianco di tuo padre o quando esci dalla doccia; è stupendo il discorso che udiamo da una persona saggia e ispirata; è stupenda la forza di una volta di pietra. Poi spesso viviamo lo stupendo come iperbole, anche ironica: "Hai ricevuto il mio regalo?" "Sì, è stupendo, grazie"; "Questo è il lavoro finito" "Stupendo, lo guardo subito"; "Avrei invitato altre otto persone a cena" "Stupendo!". Ma anche quando suona come una bonaria esagerazione - e comunemente così suona - non ci deve passare di mente la sua prima vocazione: un significato così potente da spazzare via la possibilità mentale di ogni altra qualificazione.
______________________________
(D. Buzzati , Storico e stupendo)
“Signore, il 1960 per te è stato un anno felice?”
“No”. […]
“Una schifezza d’anno, nel complesso?”
“Esatto.”
“Sarai contento che se ne vada, immagino”.
“No”.
“Tu sei un uomo assurdo, signore. […]”
“Mi ha fatto del male, è vero. Ma questo male è rimasto dentro di me, […] e mi nutre”.
“Ti nutre?”
“Sì. E poi, per brutto che sia stato, […] il 1960 è finito per sempre, non tornerà più, passassero pure diciassette miliardi di sestiquilioni di secoli, le cose di cui era fatto il 1960 non si ripeteranno più, […] erano uniche e perfette nella loro miseria e perciò sono già diventate lontanissime, piene di una loro misteriosa e romanzesca fatalità (che al momento mi sfuggiva). […]
Sì, il 1960, con tutti i suoi guai, è stato un anno bellissimo, qualcosa di storico e stupendo, che per tutta la vita ricorderò con amore.”
È facile criticare Capodanno. Già Leopardi affermava che l’uomo percepisce passato e futuro come illusoriamente piacevoli, solo perché sono lontani. Perciò festeggiamo il volgere dell’anno, senza realizzare che – come sosteneva Sartre – la nostra vita è sospesa su due nulla: ciò che non è più, e ciò che non è ancora.
Ma il ragionamento di Buzzati punta altrove. E mi ha ricordato un’osservazione dello psicologo Viktor Frankl: il passato, in realtà, è l’unica cosa che c’è. È fissato per l’eternità, non si può trasformare né eliminare. Perciò nel passato “nulla è irrimediabilmente perduto, ma tutto è irrevocabilmente salvato.”
Il tempo, infatti, ci presenta molte fuggevoli possibilità; le nostre scelte ne realizzano alcune, e condannano le altre all’inesistenza. Compito dell’uomo, dunque, è trasformare il passeggero in eterno, rendendo reale ciò che era solo possibile.
Questa è la rocambolesca avventura della libertà, che davvero getta sugli eventi un’aria “romanzesca”. Perciò l’anno passato è anzitutto “Storico”. Gli eventi non erano necessari a priori; ma, diventando reali, hanno assunto un carattere di necessità, e su di loro si sono edificati gli eventi successivi. Sono entrati in una storia e, così facendo, hanno acquisito un significato.
Inoltre le esperienze, anche le più dolorose, sono diventate parte della persona che le ha vissute, l’hanno “nutrita”. Frankl stesso sosteneva che l’uomo, per realizzarsi appieno, dovesse passare anche attraverso la sofferenza (e lui, essendo stato internato in lager, ne sapeva qualcosa).
Dunque, pur “nella loro miseria”, le cose accadute sono “uniche”, poiché irripetibili e irrevocabili; e sono “perfette” ossia compiute, significative. Perciò l’anno passato è anche “stupendo”, cioè desta stupore per la sua stessa esistenza.
G. K. Chesterton amava dire che tutte le cose sono scampate per un soffio a un naufragio, come i pochi oggetti salvati da Robinson Crusoe. Ciascuna di loro avrebbe potuto perdersi nell’oceano del non essere; e invece c’è. Ricordiamocelo dunque mentre ci accingiamo a costruire un altro, stupendo, anno nuovo.
La parola del giorno è
​
[vian-dàn-te]
SIGN Chi va per via, specie a piedi, fuori città e coprendo lunghe distanze
composto di [via] e [andante].
Non è raro che una parola sopravviva a ciò che descrive, ed è il caso del viandante. Ma i viaggiatori non mancano, i pellegrini nemmeno, e figuriamoci i turisti: in che cosa si distingueva il viandante?
Questo termine indica colui che, fuori dalle città, muove per lunghe distanze a piedi o con mezzi similmente lenti (e già questo, se prima era una necessità, oggi è un estro). Ma soprattutto, è una figura che viene solo colta nell'atto attuale dell'andare per via: propositi e scopi - come il commercio, la missione, il pellegrinaggio o il viaggio - non emergono in questo termine. Infatti resta una certa misura di mistero, nel viandante, che lo rende un personaggio fondamentale di storie e fiabe: bussa alla porta della casa isolata chiedendo riparo per la notte (e guai a negare ospitalità ), il suo incontro riserva intriganti sorprese, magari schiudendo qualche avventura.
Oggi ci si vuole muovere in fretta o comunque in maniera ben organizzata, si palesano i motivi dello spostamento e tutti vogliono sapere chi sei, da dove vieni e dove vai. Si vuole vedere la rete intera - e il nodo del viandante, che qui e ora va per la via, non si vede più.
La parola del giorno è
​
Stringato
[strin-gà-to]
SIGN Legato, stretto; conciso, essenziale
participio passato di [stringare], derivato di [stringa], a sua volta, probabilmente, da [stringere], uguale in latino.
L'azione concreta significata dallo stringare - e quella che ci appare compiuta nello stringato - nasce da un gesto che le nostre mani conoscono bene, un gesto forte e preciso: lo stingere la stringa (pensiamo pure a quella della scarpa). Ma come è che dal legato, dall'allacciato, dall'avvolto strettamente si passa al conciso? La risposta è intuitiva .
Lo stringato non ha lassezze inopportune, non pende mollemente. La stretta lo accorcia serrandolo in tensione, preciso, composto. Così figuratamente diventa essenziale ed esauriente, breve e conciso. Si dà una risposta stringata alla domanda impertinente, l'argomentazione stringata manifesta tutta l'asciutta forza della sua trama, l'introduzione stringata inquadra con efficacia il saggio.
Proprio per il suo incisivo richiamo a un'azione tanto comune, lo stringato si rivela una risorsa notevole: quando la lingua passa per le mani, il risultato comunicativo è sempre potente.
Ecco la parola che avete richiesto oggi 11.01
Grancipòrro s. m.
[dal ven. grançiporo, che è il lat. cancer «granchio», comp. con *porro (gr. πá½±γουρος: v. paguro)]. – 1. Nome di varie specie di granchi, in partic. di Cancer pagurus, commestibile, che può raggiungere notevoli dimensioni. 2. In senso fig., non com. (per lo stesso traslato, o per scherz. alterazione, di granchio), errore madornale, strafalcione: prendere, pigliare un granciporro.
Cenno della parola si trova addirittura ne "Moglie dell'Orlando Furioso" di Alessandro Vaghetti nel dialogo tra la Zita e Scolara
Zita . Il Signor Calisto
Scol. Lui !
Cal. Proprio io , preso alla lacciaja come un cane ! Mi si vuol rinchiudere come un demente, capite ?
Zita. Questo è uno sbaglio e posso garantire per esso
Scol. Certamente ella prende un granciporro . Non vede che è più sano di lei ?
​​
La parola del 10.01
​
Caricatura [ca-ri-ca-tù-ra]
Ritratto che accentua fino al grottesco le caratteristiche delsoggetto; imitazione maldestra, esagerazione ridicola
derivato di [caricare].
Questa parola è esemplare. Per il più complesso degli oggetti può essere foggiato il più semplice dei nomi.
Tutti conosciamo la caricatura: è un ritratto che esagera fino al ridicolo, fino al grottesco i caratteri del soggetto, mantenendo però un'evidente somiglianza. Ora, fino al XVI secolo la caricatura altro non era che l'atto del caricare: si poteva parlare della caricatura di un carro (peraltro è dal latino carrus che viene il 'caricare'), perfino della caricatura di un'arma da fuoco. Ma durante il Rinascimento nasce il genere dei ritratti caricati (pare che questa parola sia nata in seno alla scuola di Annibale Carracci). Ritratti in cui i tratti fisionomici venivano esagerati - figuratamente caricati in un'enfasi surreale, tale da suscitare il riso. Ritratti che quindi erano 'caricature'.
Da questo genere di ritratto, di fortuna immensa, traiamo significati ulteriori davvero fertili: non solo la caricatura, con il suo ridicolo, diventa qualunque rappresentazione satirica che accentua i caratteri di una certa realtà (nell'opera teatrale troviamo la caricatura feroce di un ambiente dissoluto) ma diventa anche l'imitazione maldestra, l'esagerazione risibile. In altri termini, il tratto non solo viene enfatizzato volontariamente per satira, ma anche per goffa simulazione, deforme e difforme. Suscita sempre il riso, ma il riso dell'umorismo pirandelliano. Il mobile di lusso è una caricatura delloStile Luigi XVI, l'amico che vuole essere seducente finisce per essere la caricatura di un latin lover, e nell'articolo viene citata come studio serio quella che è solo la caricatura di una ricerca.
Un termine comune, eppure profondo, tornito, mezzo di un pensiero acuto.
Ecco la parola che avete richiesto oggi 09.01
​
Procombere [pro-cóm-be-re]
SIGN Cadere in avanti, cadere in combattimento, soccombere
dal latino [procumbere], composto da [pro-] 'avanti' e dal verbo non attestato [cumbere] 'giacere', affine a [cubare], col medesimo significato.
Non che capiti spesso di usare questa parola, ma oltre ad avere un significato esatto ed elegante, è interessante per un motivo molto specifico, che riguarda il suo rapporto con parole etimologicamente imparentate.
Termini come 'soccombere', 'incombere' e appunto 'procombere' sono voci dotte recuperate da omologhi verbi latini, tutti costruiti su un verbo, cumbere, che però emerge solo in questi composti, senza che sia attestato da solo. L'immagine di base sarebbe un 'giacere', che viene modificata sensibilmente dal prefisso - tanto che questi verbi diventano propriamente un cadere sotto, uno stendersi sopra, un cadere avanti.
Ora, il verbo 'procombere' in italiano compare dapprima con dei significati molto simili ai primi del procumbere latino: un inchinarsi, prostrarsi avanti per supplicare, e quindi uno stramazzare, specie in riferimento agli animali. Il significato, pulito, di cadere avanti, in particolare cadere combattendo, bocconi, deve il suo successo a Leopardi, che lo usa nel suo canto "All'Italia" (io solo/ combatterò, procomberò sol io.). Un cadere avanti, sconfitti sì ma non domati - e qui troviamo una differenza col soccombere, che è invece un cadere totale. Quindi possiamo parlare dello zio che procombe dopo il terzo fiasco di vino, dell'amico che procombe nel gioco degli scacchi scegliendo avversari sempre più forti, del 'no' che procombe davanti a un paio di occhi dolci.
C'è un'ultima curiosità circa questo verbo, il cui uso leopardiano già corrente l'Ottocento veniva criticato. Niccolò Tommaseo, autore di uno dei più celebri dizionari della lingua italiana, di 'procombere' scriveva questo: l'adopra un verseggiatore moderno [Leopardi], che per la patria diceva di voler incontrare la morte: Procomberò. Non avend'egli dato saggio di saper neanco sostenere virilmente i dolori, la bravata appare non essere che rettorica pedanteria. Capito il tipo? Da schiaffi.
​
​
​
​
FRANCO [fràn-co]
Schietto, sincero; disinvolto, risoluto; libero, esente
dal francese [franc] libero, a sua volta dal francone [frank].
Siamo davanti a tutta la meraviglia di una parola comune ma dai significati eccezionalmente articolati e fertili.
Il nocciolo fondamentale del significato di 'franco' è quello di 'libero'. Proprio con questo senso si collega al nome del popolo dei Franchi - gli uomini liberi. Ora, per capire gli esitisemantica di questo termine ci si deve avvicinare al concetto di 'libero' con uno sguardo ampio, grandangolare, che permetta di dominarne il labirinto dall'alto.
Può essere declinato sul versante della volontà: il franco è disinvolto ,determinato , sicuro ; questo è ancor più evidente nel verbo 'rinfrancare', che significa proprio rassicurare, rendere nuovamente ardimentoso.
Quel genere di libertà disinvolta e sicura che è la franchezza può anche scaturire dalla sincerità, dall'innocenza , dalla consapevolezza di essere nel bene - e perciò il franco diventa lo schietto e il sincero. Francamente credo che il tuo lavoro sia ottimo, parlerò con franchezza di come mi sono sentito, e le persone franche sono la migliore compagnia.
Ma un altro ampio fronte di sviluppo del concetto di 'libero' è al confine con l'esente, libero da dazi, tasse e simili - anche in senso figurato. Nel porto franco si fanno commerci liberissimi e non sempre limpidi, sulla lettera affrancata non sono dovuti ulteriori tributi, e posso sperare di farla franca.
Di altri usi antichi e recenti, generici e tecnici (bancari, marinareschi, agrari...) se ne trovano a bizeffe . Al solito, davanti al termine estremamente prolifico di significati, la cura prima deve essere quella di far proprio il nocciolo, il fondamento di significato e le diramazioni principali: il resto è sviluppo lineare.